C’è scritto nel Re Lear: “Non parlare di bisogno! I nostri più umili mendicanti / posseggono fra le loro povere cose qualche cosa di superfluo. / Consentite alla Natura nulla di più dei bisogni naturali, / e la vita dell’uomo sarà mediocre quanto quella di una bestia. / Tu sei una Signora; / se solo l’andar caldi fosse eleganza, / allora la Natura non avrebbe bisogno di ciò di cui elegantemente ti vesti, / che scarsamente ti tiene al caldo” (Re Lear, II, 4)
Non appartengo a quegli artisti che si offendono se sentono chiamata l’arte “inutile”. Ci sono due diversi discorsi da fare. Siamo al primo bivio del ragionamento: il discorso economico e il discorso umano. Da un punto di vista economico, i lavoratori dello spettacolo e della cultura (musei, teatri, cinema, sale da concerti, laboratori “and so on”) sono in crisi e questo è un problema economico, come per tutti gli altri. Ed eccoci subito a un secondo bivio: se lo Stato, in piena buona fede, non riesce ad occuparsene e sceglie di occuparsi prima di altri settori che nell’emergenza ritiene essere più urgenti, tutto ciò è solo molto triste; se invece lo Stato ancora non se ne occupa perché ritiene l’arte e lo showbiz – scusate ma odio il termine “cultura” – essere una cazzatella divertente che al fine settimana ci fa fare a tutti quattro risate, allora è un volgare e disperante scandalo.
Affrontata brevemente la questione economica, torniamo ora al primo bivio e affrontiamo la questione umana. È dolorosamente interessante constatare quanto per l’essere umano sia importante il “superfluo”, come ci insegna Lear. Ammesso che l’arte sia inutile e “superflua” – ed io francamente lo penso, e aggiungo pure “e meno male”, almeno così è libera da beceri interessi! – quanto ci manca oggi quel “superfluo!” Ci manca il superfluo abbraccio di un parente o di un amico, un abbraccio che appunto non serve a nulla, ma che può cambiare tutto il colore di una giornata. Ci manca andare allo stadio a sentire il nostro cantante preferito e ballare e sudare come pazzi, cosa che di certo non serve a sopravvivere, ma di certo serve a vivere. Ci manca andare al cinema, che non serve proprio a nulla se non a evadere per due ore da una realtà, che – come disse Bergman una volta, mi pare – alla lunga diventa “insopportabile”. Ci manca andare in un museo, cosa che non serve a niente, ma veramente a niente, se non a riempirsi gli occhi di bellezza.
Io spero che tutto questo passi, e che passi anche un po’ in fretta. Perché mi sono un po’ rotto i coglioni di vivere al minimo sindacale. Posto che sono un uomo fortunato che fino ad ora è scampato al virus, e che un tetto e un pasto caldo ce l’ho, posto che mi farò pazientemente forza e che obbedirò sempre alle regole… io muoio dalla voglia di abbracciarmi a un parente, di prendere un caffè con un amico (libero di poter tossire), muoio dalla voglia di andarmene al cinema schiacciato fra la folla e sommerso dai pop-corn. Muoio dalla voglia di andare in scena e tormentare il pubblico a forza di Shakespeare.
Siamo naufragati su un’isola nuda. È vero: per ora dobbiamo occuparci di a) non morire b) nutrirci c) dormire al riparo. Ma – porca miseria! – ricordiamoci che, all’alba dei tempi, dopo essersi messo al sicuro, l’essere umano ha cominciato a raccontarsi storie alla sera sotto le stelle, a dipingere sulla parete delle caverne, a ballare attorno al fuoco. Perché – cazzo! – l’essere umano ha bisogno del superfluo.
Io spero che tutto questo passi. Perché mi manca il superfluo.
Enrico Petronio