WILLY del sabato, 9 gennaio

Primo articolo del nuovo anno.

Chi mi segue su Instagram sa che ultimamente me ne sono andato a zonzo per prati e paludi (neonate dalla pioggia di queste settimane) e, stupefatto delle bellezze del Creato, mi sono messo come al mio solito a raccontare di Shakespeare. Plausibilmente, al di là della passione e dell’interesse che nutro per il mio amatissimo Genio, quello che lui ed io abbiamo veramente in comune (ed è per questo che forse ci siamo incontrati) è proprio l’amore per la Natura, intesa sia come “mondo” sia come “natura umana”. Sì, è vero, “tutto il mondo è un palcoscenico” (Come vi piace). Questo perché, secondo me, tutto il mondo è talmente bello che andrebbe usato come fosse un palcoscenico. Ed è proprio ciò che mi ripropongo di fare quest’anno.

Voglio andarmene di più a zonzo – Covid permettendo – e trovare Shakespeare, e parlarvi di Shakespeare. Voglio girare dei piccoli documentarini, con il mio cellulare – nulla di troppo complicato – e farvi vedere dove si annida Willy nel mondo, appena fuori di casa. Sarà questa la mia dimensione di “esploratore shakespeariano”: zainetto in spalla, acqua, panino e via.

Il primo documentario che voglio provare a girare sarà su Roma, a proposito del rapporto fra Shakespeare e Roma. Vi parlerò del Tito Andronico, di Giulio Cesare e di Coriolano. E vi racconterò cosa significava Roma per Shakespeare e perché ha ambientato certe vicende qui nella capitale.

È buffo (e anche un po’ commovente, scusate, ma solo per il sottoscritto) quando finalmente tutti i tasselli del puzzle sono stati sistemati e l’immagine si rivela chiara. Ovviamente, il puzzle in questione sono io, e l’immagine di cui sto parlando è il mio destino che si compie. Ho cominciato a fare teatro perché credevo di voler fare l’attore, e poi il regista. Credevo che sarei diventato un grande attore, o un grande regista. Niente. Ma adesso… quanta gioia mi da il mio zainetto! Jeans, giaccone, scarpe comode, cioccolata nelle tasche e… via, libero come il vento a parlarvi di passioni, amore, odio, gelosia, pensieri, vita, morte, notte, giorno, musica…

Quando anni fa viaggiavo di qua e di là per mille esperienze diverse, alla ricerca di un falso me, era solo un viaggio sbagliato. Mi sentivo libero, sì è vero, ma non lo ero. Mille esperienze diverse non sono un viaggio, non sono libertà. La casa che avevo lasciato, cioè “me stesso”, dalla quale ero fuggito anche con un notevole sprezzo, inevitabilmente si rifaceva sempre sentire, e mi richiamava a sé. E così smisi di viaggiare inutilmente. Cominciai a viaggiare da fermo, chiuso in casa, anzi, chiuso in cucina. Willy l’esploratore shakespeariano è nato in cucina. Anni fa.

Ora posso ricominciare un altro viaggio, fuori. Ma questa volta è quello vero, quello giusto. Ora so chi sono, e chi non sono. E chi non voglio essere. Insomma, parafrasando il filosofico Bolingbroke nello scintillante Riccardo II

        Ogni tedioso passo che facevo

        non ha fatto che ricordarmi quanto mondo,

       vagando, mi allontanava dai gioielli che amo.

       Non ho dovuto forse servire un lungo apprendistato

       verso sentieri stranieri, per poi, alla fine,

       avere una libertà, mia, scaturita da niente altro

       se non dal fatto che ero solo un viaggiatore verso il dolore?

E adesso basta col dolore!

EP alias Willy

 

WILLY del sabato, 19 dicembre

“Il silenzio è il più perfetto araldo della gioia”

(Molto rumore per nulla, II,1)

La notte di Natale, stando a ciò che riportano i Vangeli e le canzoni, deve essere stata una notte di pace e di silenzio. Da bambino ho avuto il privilegio di cantare Stille Nacht in lingua originale, in tedesco. Non me ne vogliano gli altri, ma non c’è gara. Stille Nacht non significa Astro del Cielo, come fu invece tradotta nella nostra lingua. Significa “notte silenziosa”.

I versi tradotti correttamente recitano così: Notte silenziosa / Notte santa / Tutto dorme / Solitaria è sveglia solo / la santa coppia / che tiene stretto a sé il ricciuto bambino / che dorme in una pace santa, / che dorme in una pace santa.

Dio mio, se solo riuscissimo a fare di ogni nostro rumorosissimo giorno una notte silenziosa! Se solo riuscissimo a stare sempre così, svegli in una pace santa, divina, benedetta, sovrannaturale! Se solo riuscissimo a non dimenticarci di quel bambino che ciascuno di noi tiene in braccio, ogni minuto, ogni secondo, per sempre!

Se è vero che Dio ha forgiato l’uomo a sua immagine e somiglianza, quand’è che capiremo che siamo proprio “noi” Dio, che Dio è “dentro”, non fuori, non dipinto sulle splendide volte delle chiese, non nella mangiatoia di plastica o di terracotta di un Presepio? Ascoltare Dio vuol dire ascoltare il buono di sé stessi. Tutto qui. Quand’è che smetteremo di fare di Dio un’autorità lontana alla quale noi, uomini moderni ansiosi di proclamarci liberi, dobbiamo per forza disobbedire così da non portar addosso l’onta deplorevole e umiliante di non essere onnipotenti?  Quando capiremo invece che è proprio Dio quella nostra initima autorità interiore, la nostra più impietosa sincerità, la nostra più vicina autenticità, la nostra più libera verità che giornalmente ci fa compiere delle scelte e che ci ricorda – ormai timidamente quasi, in sordina, quasi a doversi scusare – che esistono anche gli altri, e che fra il compiere una buona azione o una cattiva la prima rimane ancora e sempre l’opzione migliore, senza se e senza ma?

Quotidiane scelte, quotidiani bivi, quotidiani dilemmi, quotidiane lotte intestine che caratterizzano noi uomini moderni. Proiettati verso un futuro senza più sensi di colpa, liberi dalla coscienza, totalmente assoggettati al proprio tornaconto (seppur comprensibile), innovativi senza più alcun timore del domani, iper-coraggiosi, iper-ignoranti, non rispettosi delle anziane autorità che vennero prima di noi? Dio mio, speriamo di no…

EP alias Willy

 

WILLY del giovedì, 10 dicembre

“Che cosa volete tanto, voi cani,

a cui non piace né la pace né la guerra?”

(Coriolano, I, 1)

Ultimamente diverse persone mi dicono, anzi, mi intimano di stare calmo. Ho deciso dunque di applicare per circa trenta minuti (il mio massimo possibile) il loro preziosissimo consiglio e di scrivere la mia rubrica in elogio a noi fottutissima gente irascibile, stressata, ansiosa, che più di una volta pariamo il più mite deretano di quelli che calmi ci sanno stare. Eccome! Talmente calmi che a noi altri ci viene l’infarto. Talmente calmi da non considerare mai le coordinate di spazio e tempo, o il concetto di rischio, o altre belle cosette riservate a quelli come me che quotidianamente vengono additati come isterici. Fanculo, scusate! Siete una massa informe di ipocriti passivo-aggressivi con le fattezze di un gigantesco budino umano.

Quello che voi pachidermi non sembrate capire è che anche a me piacerebbe tanto starmene, come voi, tranquillo tranquillo su una spiaggia caraibica – fisica o mentale – a non fare nulla. E anche a me piacerebbe che l’orologio – quella snervante diavoleria che fa inesorabilmente tic-tac – fosse solidale coi miei problemi e galantemente mi aspettasse ogni volta che mi trascino. Anche a me piacerebbe che  quelle due maledettissime lancette avessero pietà di me e dell’umanità intera, maledetta razza costretta in corpi di carne caduca . Anche a me piacerebbe che splendesse sempre il sole, che non esistessero i pazzi in autostrada, le buche nell’asfalto, il Fattore X, l’incognita non prevedibile, e altre misteriose amenità create da questo stronzo universo imparziale che se ne frega di me e di te e di quanti sogni entrambi teniamo nel nostro cassettuccio. La cosa divertente però è che tali ameni scherzi di Dio esistono. E se è vero che la mia ansia un giorno mi porterà all’infarto, è anche vero che la “vostra” calma ricorda la vèrve di una salma egizza, e che è proprio in virtù di tale millenario sprint che arriverete tardi a quell’appuntamento al quale tenete tanto. Quindi, cari i miei calmissimi Tutankamon che avete avuto la fortuna di essere nati privi del gene dell’ansia, è grazie a gente come me, che oltre alla propria ansia si deve fare carico dell’assenza pneumatica della “vostra” (ben celata o taciuta) che arriverete in orario. Voi mi direte: meglio arrivare tardi a un appuntamento che in anticipo al proprio funerale. È vero. Concordo. D’accordissimo. Però, nel mentre, vi fa un gran comodo che io, coi sudori freddi, vi ricordi di sbrigarvi. Vero?

Da parte mia posso assicurarvi che attendo l’infarto con gioia, anzi, con struggente trepidazione. Sarà una liberazione. Sarà meglio del 4 di luglio per gli Americani. Sarà come trovare il Santo Graal. Se la chiamano “pace eterna” allora vorrà dire che dopo me ne starò eternamente in pace. Giusto, no? E giuro che se c’è la fregatura, farò causa a San Pietro o a chi di dovere. Giuro che se c’hanno ragione i Buddisti e mi rincarno, mi ammazzo di nuovo subito, anche se sono una vacca o un criceto. Col cavolo che rifaccio tutto da capo!

Io so che sarò fra i primi qui a lasciarci le penne. E proprio grazie alla mia ansia, al fatto che non sto mai calmo. Ma che vittoria la mia, starmene al sicuro sulla mia nuvoletta al riparo da voi altri calmissimi rompicoglioni.

EP alias Willy

WILLY del martedì, 8 dicembre

“Alcuni dicono che proprio quando arriva la stagione

in cui si celebra la nascita del nostro Salvatore,

(…) nessuno spirito osi muoversi in giro;

le notti sono salubri; allora, nessun pianeta colpisce;

nessuna fata ha il sopravvento; né strega ha potere per incantare.

Così santo e pieno di Grazia è quel tempo”.

(Amleto, I, 1)

Ho scoperto recentemente che non mi piacciono gli addobbi natalizi in casa: né l’albero di Natale né il Presepe. E non credo c’entri nulla con la mia infanzia. Cioè, per carità, tutto c’entra sempre con la propria infanzia. Le nostre emozioni oggi sono un miscuglio delle nostre emozioni di allora e il nostro carattere innato.

Ci tengo subito a precisare che ciò che scriverò sarà, come sempre, unicamente la mia opinione. Non la verità, bensì la mia verità. Quindi – vi prego – che nessuno si offenda.

È che proprio oggi pensavo che c’è un ché di idolatria nel Presepe. Tutto sommato non mi piace quell’allegoria posticcia della capanna, le statuette, muschio e roba varia. Esteticamente può anche essere molto bello. Ma qual è la sua funzione? Ricordarmi che è Natale e che sta per nascere Gesù Bambino? Scusate ma così è troppo comodo! Sta a me ricordarmelo, e ogni giorno, mica solo dall’ 8 dicembre al 6 gennaio. Anzi, il bello viene dopo. Dopo che abbiamo faticosamente disfatto gli addobbi, è allora che dobbiamo stare attenti e vegliare – “vegliate” (Vangeli) – perché il nostro lato oscuro, quella simpatica bestiolina dentro di noi a cui tanto piace fare del male agli altri e a sé stessa, non prevalga. Bisognerebbe allora che ci ficcassimo in tasca un piccolo Presepe portatile per tutto l’anno, per tutta la vita. Così, non appena metteremmo la mano in tasca, diremmo a noi stessi: “Attento! Non solo a dicembre! Sii buono, fa il bravo, o Babbo Natale non ti porta i doni”.

Se lo chiedete a me, che sto diventano sempre più bacchettone e austero, la Cattedrale va eretta dentro, fra quelle quattro costoluccie in prossimità del cuore, il più esigente degli organi vitali. Palle di Natale, lucine, bue e asinello non ci salveranno dall’essere bastardi e meschini.

Mio padre mi costruiva dei bellissimi Presepi quando ero piccolo. Me li faceva coi giornali, col gesso colato, tutti dipinti e con le statuette di coccio. Non ricordo assolutamente come fosse il prodotto finale. Ma ricordo mio padre chino a terra a colare il gesso sui giornali e sugli stracci. Nella mia cameretta col tavolino basso e verde.

Enrico Petronio

WILLY del sabato, dicembre

EP by Elio Carchidi

“O, una musa di fuoco che ascenda

al più luminoso paradiso dell’invenzione!”

(Enrico V, Prologo)

Parlavo con una persona l’altro giorno. Parlavamo di futuro, di intelligenza artificiale, di macchine e di robot. Dicevamo di quali cose strabilianti oggi i robot possano fare, e soprattutto quali cose oggi impensabili saranno capaci di fare un giorno, in un futuro (forse) neanche troppo lontano. Il mio compagno di dissertazioni dice allora: “un giorno le macchine potranno fare cose che noi oggi possiamo solo immaginare”. “Ecco”, rispondo io, “le macchine saranno mai in grado di immaginare?”

Quando si dice che i robot un giorno sapranno fare tutto – mi chiedo – saranno anche in grado di immaginare e creare dal nulla? A quanto ne so, per ora, i robot sanno solo copiare, o produrre cose che sono la somma (l’elaborazione) di altre. Le possibilità non sono dunque “infinite”, come comunemente e superficialmente si dice. Per quante possano essere, sono pur sempre “finite”. Voglio dire: se io ad esempio immetto in un robot cento dati – perché un robot nasce “vuoto”, privo di anima – ciò che quel robot potrà produrre in seguito sarà una quantità eccezionale di combinazioni di quei cento dati. Ma un numero finito per l’appunto, non infinito. “Infinito”, a casa mia, significa veramente “senza fine”. E perché qualcosa sia senza fine, secondo me, deve per forza nascere dal nulla, venire dal nulla, cioè essere qualcosa di personale, unico, irripetibile, nato per essere l’essenza di qualcosa che prima non esisteva, oggi parte integrante senza confini di un universo senza limiti, cioè la creatività umana. Penso a Mozart, a Van Gogh a Bernini e a tutti gli artisti. Uomini che hanno sentito qualcosa, immaginato qualcosa, creato dal nulla qualcosa.

Dunque il mio compagno di chiacchiere mi fa abilmente notare che anche uno stupendo quadro di Van Gogh in realtà potrebbe essere il prodotto di tutto ciò che Vincent ha visto dal suo primo giorno di vita in poi. Quindi, forse, quell’opera eccezionale, prendiamo ad esempio la famosa “Notte stellata”, che io considero eccezionale (“eccezionale” è qualcosa di “altro” rispetto alla regola, qualcosa di  nuovo che sta “oltre” ciò che regolarmente esiste), in realtà potrebbe essere la combinazione di tutte le notti stellate che all’artista sono entrate negli occhi fin dal suo primo giorno di vita, consciamente e non. Ma non solo: potrebbe avere dentro di sé anche  tutte le sfumature di colori e tutte le forme che l’artista ha percepito da sempre. Allora – mi chiedo – le “cose” possibili sono veramente… non-infinite? E qual è allora la differenza vera tra un robot e l’essere umano?

“Ok. Anche noi esseri umani non creiamo veramente dal nulla. E va bene. Anche le nostre possibilità non sono infinite e la creatività – come diceva Papa Wojtyla nella sua bellissima “Lettera agli artisti” – è solo un assemblaggio (una combinazione) di cose. Ma un robot è capace di commuoversi davanti a un’opera d’arte?” chiedo alla fine. Gool. Il dibattito sembra aver trovato una conclusione. Io e il mio interlocutore siamo d’accordo nel considerare che la vera sostanziale differenza fra noi e un’intelligenza artificiale sia proprio… il cuore.

Enrico Petronio Willy l’esploraore shakespeariano

 

WILLY del sabato, 21 novembre

La copertina del programma di sala di “Scene dal parco della luna – Farfalle” (2014) Foto: G. Simonetti, grafica: S. Infusi

“In ciò gli uomini dai bambini non sono diversi”

(Molto rumore per nulla, V,1)

Preso da alcuni giorni dal mio stagionale attacco di confusione cosmica, riguardo indietro, così, tanto per ricordare a me stesso chi sono stato fino ad oggi, e chi forse sono ancora.

A dispetto di tutti quelli – amici e terapeuti vari – che mi consigliano, e cercano di insegnarmi a programmare… niente da fare, non ci riesco. Ho sempre pensato che il mio unico rammarico in punto di morte sarà quello di aver detto un millesimo delle cose che avrei da dire, e aver fatto un millesimo delle cose che vorrei fare. Ma tant’è. Colpa della mia incostanza, della mia lunaticità, della mia incapacità di programmare. Tempo fa ho chiesto a mia moglie (povera donna): “Ma, secondo te, quello che faccio ha un senso? Io ho un senso?” Mi ha risposto di sì. Non ho mai capito se ha risposto così per amore, per sfinimento, o perché lei, come altri, vede ciò che io invece non riesco a vedere.

Fatta questa premessa, sfoglio il mio passato di foto, articoletti, video e fregnacce varie e, sì, un senso ce lo trovo anch’io stavolta: sono sempre stato e sempre sono… un bambino, uno che gioca. Professionalmente ormai mi definisco un “esploratore”, termine un po’ accattivante, “che funziona” direbbero quelli dei Social. Infatti è così che mi chiamano quando mi intervistano. E del resto chi è più esploratore di un bambino, uno che ha tutto da conoscere, da scoprire, da assimilare, da digerire, da risputare fuori a proprio modo? Buffo. Fra pochi giorno compio 46 anni, e a guardare ciò che ho prodotto fino ad ora mi sembrano tutte cose da ragazzino. Dal di fuori mi verrebbe da dire: “Ma questo c’ha dieci anni! Ma s’è pure sposato? Ma come vive?” Eppure in ogni cosa che ho fatto, al momento, c’ho creduto davvero. Proprio come un bambino crede di avere i super-poteri quando gioca a fare spider-man.

E a tutti quei bambini che si sentono di non valer un centesimo, vorrei dire: “Tu sei una meraviglia. Tu sei una cosa stupenda. Non sei né migliore né peggiore di altri. Sei un piccolo grande essere umano, una creatura di Dio. E tutte le creature di Dio sono meravigliose. Ficcatelo bene in testa”.

Enrico Petronio

 

 

WILLY del sabato, 14 novembre

Tiziano Ferrari ne “Il corvo supremo” (2015)

C’è scritto nel Re Lear: “Non parlare di bisogno! I nostri più umili mendicanti / posseggono fra le loro povere cose qualche cosa di superfluo. / Consentite alla Natura nulla di più dei bisogni naturali, / e la vita dell’uomo sarà mediocre quanto quella di una bestia. / Tu sei una Signora; / se solo l’andar caldi fosse eleganza, / allora la Natura non avrebbe bisogno di ciò di cui elegantemente ti vesti, / che scarsamente ti tiene al caldo” (Re Lear, II, 4)

Non appartengo a quegli artisti che si offendono se sentono chiamata l’arte “inutile”. Ci sono due diversi discorsi da fare. Siamo al primo bivio del ragionamento: il discorso economico e il discorso umano. Da un punto di vista economico, i lavoratori dello spettacolo e della cultura (musei, teatri, cinema, sale da concerti, laboratori “and so on”) sono in crisi e questo è un problema economico, come per tutti gli altri. Ed eccoci subito a un secondo bivio: se lo Stato, in piena buona fede, non riesce ad occuparsene e sceglie di occuparsi prima di altri settori che nell’emergenza ritiene essere più urgenti, tutto ciò è solo molto triste; se invece lo Stato ancora non se ne occupa perché ritiene l’arte e lo showbiz – scusate ma odio il termine “cultura” – essere una cazzatella divertente che al fine settimana ci fa fare a tutti quattro risate, allora è un volgare e disperante scandalo.

Affrontata brevemente la questione economica, torniamo ora al primo bivio e affrontiamo la questione umana. È dolorosamente interessante constatare quanto per l’essere umano sia importante il “superfluo”, come ci insegna Lear. Ammesso che l’arte sia inutile e “superflua” – ed io francamente lo penso, e aggiungo pure “e meno male”, almeno così è libera da beceri interessi! – quanto ci manca oggi quel “superfluo!” Ci manca il superfluo abbraccio di un parente o di un amico, un abbraccio che appunto non serve a nulla, ma che può cambiare tutto il colore di una giornata. Ci manca andare allo stadio a sentire il nostro cantante preferito e ballare e sudare come pazzi, cosa che di certo non serve a sopravvivere, ma di certo serve a vivere. Ci manca andare al cinema, che non serve proprio a nulla se non a evadere per due ore da una realtà, che – come disse Bergman una volta, mi pare – alla lunga diventa “insopportabile”. Ci manca andare in un museo, cosa che non serve a niente, ma veramente a niente, se non a riempirsi gli occhi di bellezza.

Io spero che tutto questo passi, e che passi anche un po’ in fretta. Perché mi sono un po’ rotto i coglioni di vivere al minimo sindacale. Posto che sono un uomo fortunato che fino ad ora è scampato al virus, e che un tetto e un pasto caldo ce l’ho, posto che mi farò pazientemente forza e che obbedirò sempre alle regole… io muoio dalla voglia di abbracciarmi a un parente, di prendere un caffè con un amico (libero di poter tossire), muoio dalla voglia di andarmene al cinema schiacciato fra la folla e sommerso dai pop-corn. Muoio dalla voglia di andare in scena e tormentare il pubblico a forza di Shakespeare.

Siamo naufragati su un’isola nuda. È vero: per ora dobbiamo occuparci di a) non morire b) nutrirci c) dormire al riparo. Ma – porca miseria! – ricordiamoci che, all’alba dei tempi, dopo essersi messo al sicuro, l’essere umano ha cominciato a raccontarsi storie alla sera sotto le stelle, a dipingere sulla parete delle caverne, a ballare attorno al fuoco. Perché – cazzo! – l’essere umano ha bisogno del superfluo.

Io spero che tutto questo passi. Perché mi manca il superfluo.

Enrico Petronio

WILLY del sabato, 7 novembre

Nulla di più lontano da me. Un genere di spettacolo che non è nel mio d.n.a. Una romanità che non possiedo, nella quale non mi riconosco. Non sono uno che ama scherzare sugli orrori dell’esistenza. Non sono uno che apprezza il “tiramo a campà”, o il “famose ‘na risata”. Non sono d’accordo con la politica del sopravvivere, dell’arrivare a fine giornata davanti a un piatto de pastasciutta mettendo a tacere le proprie sofferenze con due barzellette. Preferirei morire (e sperar di rinascere) piuttosto che sopravvivere. Non voglio aver paura di mostrare né il mio dolore né la mia gioia.

Sono uno dei tanti, tantissimi, che ha incontrato una volta nella propria vita Gigi Proietti, secoli fa. Un incontro, un provino, fine. Deve aver pensato probabilmente “che ci faccio con questo ragazzino borghese?” Ed aveva ragione.

Quello poi che penso dell’operazione Globe Theatre è facile e breve a dirsi: un’operazione sociale riuscitissima e onorevole, di una superficialità agghiacciante nei contenuti. Non mi piacciono i registi che lavorano al Globe, con la sola eccezione di Daniele Pecci che anni fa firmò una regia dell’Enrico V e che, guarda caso, lavorò al Globe – se non erro – solo quella volta lì. Sugli attori che lavorano in tali spettacoli non mi esprimo. Si sa che un attore può essere bravissimo quando lavora con un bravo regista, mediocre quando lavora con un regista mediocre, e pessimo quando è nelle mani di un regista pessimo.

Molto interessante è stata l’intervista a Piera degli Esposti, giovedì 4 novembre, su Rai 1 nel programma “Oggi è un altro giorno”. L’attrice ha confessato che Proietti un giorno le disse amaramente: “Non ho avuto ciò che desideravo”.

Non capirò mai perché gli artisti italiani – o gli Italiani – debbano sempre, timidamente, pudicamente, nascondersi dietro le maschere. Roba ovviamente che ci viene dalla Commedia dell’Arte! Noi Italiani, così spavaldi, rumorosi, plateali, melodrammatici, passionali, aggressivi, siamo terrorizzati all’idea di metterci a nudo. Ma è nel nudo che c’è l’anima. Ed è nel nudo solamente  che c’è la possibilità di realizzare i propri sogni. Forse Proietti, con quella malinconica confessione all’amica, intendeva dire proprio questo. Che a forza di barzellette (raccontate in modo sublime) e agghindato di quell’elegante istrionismo un po’ retrò, si era precluso la possibilità di esprimere un’altra bella parte di sé, che certuni potrebbero – per facilità di comprensione – chiamare “lato oscuro”. Così come il Globe di Villa Borghese. Dov’è il lato oscuro? Al di là dei caratteri, dei microfoni (che tutto ammazzano), dei costumi e delle canzoni… dov’è Shakespeare?

Peccato. È sfumato un altro dei miei sogni. Quello di fare un giorno la regia del “Giulio Cesare” con tutto il gota degli attori romani, il malinconico Proietti in testa, magari proprio a fare Cesare! Sarebbe stato uno spettacolo stupendo. Ma l’ho visto solo io, “nell’occhio della mia mente” (Amleto, I,2).

Enrico Petronio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

WILLY del sabato, 31 ottobre

Con Carmine Fabbricatore durante “Alter-ego”.

Ho sempre pensato che qualcuno dovrebbe prendersi la briga di fondare un giornale o dirigere un telegiornale in cui si diano solo buone notizie. Sul serio.

Probabilmente è una questione di endorfine, o quella roba lì. Re Lear diceva: “Dal nulla viene il nulla”. Qualcun altro diceva: “Sangue chiama sangue”. Dunque, per logica associazione di idee si dovrebbe dire che “speranza genera speranza”, “coraggio genere coraggio” e “bellezza genera bellezza”. Per carità, senza nulla togliere all’orrore, mondiale o nostrano, che è necessario conoscere, ma non siete d’accordo che un’iniezione di ottimismo ogni tanto potrebbe funzionare?

Se è vero che siamo tutti guardoni e pieni zeppi di neuroni a specchio, ma non si potrebbe guardare un po’ di paradiso e specchiare coloro che creano cose meravigliose in ogni campo della conoscenza umana piuttosto che star sempre lì a guardare l’inferno e specchiare la merda?

Qualcuno ci pensi, vi prego.

Buon fine settimana. Buona fine del mondo.

Enrico Petronio

E.T., Coriolano e altri Centauri

“There is a world elsewhere” (Coriolanus, III, 3)

Ieri pomeriggio ho rivisto E.T.

Da quando mi occupo di studiare la relazione fra Shakespeare e l’astrologia, mi piace ogni tanto guardare un film ed analizzarlo a partire dal segno zodiacale del regista. Nel caso di “E.T.” parliamo di Steven Spielberg, un Sagittario. E che Sagittario!

Nel film, le caratteristiche della natura del Sagittario ci sono tutte. In primo luogo perché si parla di cose venute dallo spazio, da un altro mondo, dove c’è un altro tipo di vita. Se torniamo a Shakespeare, una delle più celebri battute del personaggio di Coriolano – personaggio che Shakespeare ha costruito secondo le caratteristiche del Sagittario – recita così: “C’è tutto un mondo, da qualche altra parte”. Il Sagittario è definito dall’astrologia  il segno che sa andare e va “oltre”. “Da qualche altra parte”, appunto. Verso mondi che altri ancora non conoscono e che sono invece tutti da scoprire. E da mostrare.

Il rapporto fra il bambino Eliot e l’Extra-terrestre è tutto costruito secondo le caratteristiche del segno del Centauro. Nel Centauro la parte umana e la parte animale convivono in un eterno e profondo dialogo-conflitto, in un amoroso alternarsi di gioia e dolore, pienezza e mancanza. Se prevale una parte, l’altra soffre.

Interessantissimo è il fatto che la relazione fra il bambino e l’alieno cominci con la paura, nella scena in cui per la prima volta Eliot trova l’alieno nel campo di notte. I due urlano all’unisono. Perché per un Sagittario la paura è l’emozione portante della propria vita, e solo imparando a non avere paura – ma per fare questo il Sagittario deve comunque passare attraverso quella faticosa esperienza – il Centauro potrà maturare. Solo se l’umano impara e non temere l’alieno, e l’alieno a non temere l’umano, solo così il Centauro sarà un tutt’uno completo. Umano e alieno devono diventare amici.

Altro momento interessante è quando l’alieno si ubriaca con la birra e Eliot, il bambino, prova gli stessi sintomi mentre è a scuola. L’alcool è per un Sagittario un toccasana fondamentale (se non ne abusa – attenzione!), perché gli impedisce di diventare iper-razionale e libera l’istinto quando questi è troppo represso. Infatti cosa succede un attimo dopo? Eliot, mezzo ubriaco, libera le rane condannate alla vivisezione durante l’ora di scienze. La prigionia, propria o altrui, è per un Sagittario la più violenta delle cattiverie. Non è giusto che una creatura venga imprigionata e uccisa. Tutti meritano la libertà.

Se è vero che il Centauro è il segno dell’esplorazione e dell’andare sempre “oltre”, è anche vero che prima o poi egli sente la nostalgia di casa. Non si può volare per l’universo senza avere una casa alla quale tornare prima o poi. Tutta la lacerazione intima del Sagittario si esprime nel desiderio di andarsene a zonzo per l’universo (anzi, per gli universi) ma sempre con dentro una profonda nostalgia per la casa lasciata. La nostalgia è quella cosa sublime che fa dire all’eterno bambino: “Ohi, ohi!”

Il Sagittario è l’unico capace di fare volare le biciclette così da superare (andare “oltre”, scavalcare) lo sbarramento delle auto della polizia. Immaginazione è potere. Come dice Eliot all’inizio del film: “io ho l’assoluto potere”. Se al Sagittario dovesse mai capitare la sventura di dimenticare che egli sa davvero volare, e può volare, e sa far volare anche tutti gli altri, allora il Sagittario è perduto. Io ne so qualcosa, in questo momento. Spero un giorno di ricordarmi come si fa. Spero di ricordarmi che, una volta, lo sapevo fare.

Quando bambino e alieno si separano, l’alieno chiede al bambino di andare con lui, e il bambino chiede all’alieno di restare. La separazione è dolorosa. La ragione chiede all’istinto di restare, l’istinto chiede alla ragione di andare con lui. Siccome è un film di fantascienza, una favola moderna, ed è giusto che ciascuno degli eroi viva nel proprio mondo, i due alla fine decidono di separarsi. Ma prima di salire sull’astronave, l’alieno dice al piccolo: “io sarò sempre con te”. E con il dito gli tocca la fronte. L’alieno, l’istinto, rimarrà sempre nella mente dell’umano, ed è lì che l’umano potrà andarla a ripescare ogni volta che ne avrà bisogno. La separazione fisica non pregiudica più la vicinanza biologica. Ratio e istinto, d’ora in poi, saranno una cosa sola.

Il film finisce con un primo piano del bambino, cresciuto, maturato, evoluto. Punta gli occhi al cielo e il suo volto è splendente. D’ora in poi quel bambino saprà sempre guardare lontano. Saprà sempre, con occhi come due laser, bucare l’oscurità. Sarà sempre attratto dalle lontananze dell’universo. Nelle meravigliose oscurità (che non spaventano più) si celano le luminose risposte che gli esseri umani non riescono a trovare qui.

Enrico Petronio