WILLY del sabato, 17 ottobre

“Il corvo supremo” con Barbara Esposito e Tiziano Ferrari (2015)

Mi sono sempre piaciuti quegli artisti capaci e desiderosi di parlare del proprio dolore senza filtri. Senza vergogna. Chi mi conosce sa – e forse gli altri pure! – che dietro questa maschera sorridente di uomo apparentemente ottimista si cela il più sfegatato e cupo fan del cinema lapidario di Ingmar Bergman, del teatro penoso di Cechov o di Lorca, della coraggiosa e arrabbiata musica di Alanis Morrissette.

E allora Shakespeare come si colloca in tutto questo?

Shakespeare è forse l’àncora che fino ad oggi mi ha tenuto fermo. Il salvagente che mi ha impedito di annegare. Qualcosa che comincio a pensare abbandonerò presto. Certe volte – spesso, sempre più spesso – mi chiedo se non sia meglio lasciarsi andare. Potrebbero esserci cose meravigliose dall’altra parte dell’oceano, o persino al di sotto dell’abisso.

Non che di dolore in Shakespeare non se ne parli. Ma c’è, d’altra parte, uno stoicismo e una grinta che – a parer mio – rendono il dolore ancora più pesante alla lunga. Sfinente. Certe volte del dolore bisognerebbe parlarne liberamente, lasciandosi travolgere dalla marea. Lasciarlo fluire per quello che è, senza l’impegno di rimanere sempre in piedi. Il dolore può essere luminoso e tetro come le strade in novembre alla sera, quando nel buio umido appaiono i lampioni con la loro luce di miele dorato. Ed è allora che è bellissimo.

Prima, per definire alcuni dei miei artisti preferiti, ho usato aggettivi quali “lapidario”, “penoso” e “coraggioso”.

“Lapidario” perché, a differenza della sofferenza, il dolore è come una gran bella sassata. La parola “dolore” non viene da un verbo come “sofferenza” (che viene da “soffrire”). Dunque non è qualcosa che possiamo o non possiamo agire. Mentre possiamo scegliere di smettere di soffrire, non possiamo scegliere di smettere di provare dolore. E quindi il dolore è qualcosa che ci accomuna tutti.

“Penoso” perché vedere qualcuno soffrire fa soffrire. Non raccontiamoci comode, ipocrite e feroci balle! Non serve a nulla fare i duri! Come gli esseri umani sono tutti capaci di distinguere fra il Bene e il Male – altra cosa poi è scegliere di perseguire l’uno o l’altro – così tutti gli esseri umani sono capaci di sentire il Bene o il Male altrui. Non c’entra nulla l’empatia, termine abusatissimo nei melodrammatici tempi odierni. Si chiama “coscienza”. Non ci possiamo fare nulla. Ce l’abbiamo tutti – pure gli stronzi – coscienti o no. È quella che ci consuma e ci consegna alla morte, chi prima chi dopo, a seconda di quanto sappiamo resisterle.

E infine “coraggioso”,  perché ammettere di provare dolore lo reputo l’atto più coraggioso fra tutti. Chi si vanta di non provare dolore, così come chi si vanta di non avere paure, non è altro che un bugiardo. Un ridicolo, patetico bugiardo.

Dio! Se penso a tutte le cose meravigliose che l’essere umano potrebbe realizzare, sì, se solo ammettessimo tutti di provare dolore e paura. Il dolore non accusa il suo prossimo, perché viene da qualcosa di più profondo e lontano del mio prossimo. Non è mia madre che mi ha provocato dolore, né mio padre, né mia moglie, né nessuno dei miei amici o dei miei conoscenti. Gli altri sono solo il tramite (volontario o no) attraverso il quale il mio dolore si è manifestato. Ma il mio dolore nasce oltre, altrove. Molto prima di mia madre, o di mio padre e di tutti gli altri.

Quindi, a conti fatti, a noi non resta che scegliere di essere tramiti e portatori o di dolore o di gioia. E questo è il problema che dobbiamo risolvere su questa Terra.

Al di là di tutte le accuse e le condanne, accettiamo e capiamo che tutti proviamo dolore e che ci dobbiamo aiutare. Ciascuno di noi è stato abbandonato qui su questo pianeta. Ciascuno di noi soffre ancora, ogni giorno, per quell’abbandono. Aiutiamoci. Sosteniamoci. Camminiamo assieme. Non perpetuiamo quell’abbandono. Non abusiamo dell’abbandonato. Non calpestiamo l’abbandonato. Non ci vendichiamo su di lui del nostro abbandono.

Camminiamo assieme.

Enrico Petronio

WILLY del sabato, 10 ottobre

L’altro giorno, mentre camminavo verso casa, la mascherina sul viso e gli occhiali da sole appannati dal respiro intrappolato, sono stato colto da una botta di nostalgia. Nostalgia per quando potevamo uscire a fare una pizza fuori senza pensieri. Nostalgia per quando potevamo scegliere di andare in palestra a farci una bella sudata senza pensieri. Per quando se qualcuno ti starnutiva accanto non ti prendeva un coccolone. Per quando potevi invitare a casa amici e parenti e abbracciarli e baciarli tutti senza ritegno, al riparo da occhi indiscreti. Nostalgia per un vita leggermente con meno problemi.

Problemi. “Problema”. Quale parola shakespeariana! Più shakespeariana – amletica! – di questa non ce n’è! “Problema” (Nota 1).

È tutto un problema. Almeno, sembra esserlo. È la mia prospettiva iper-ansiosa che trasforma la realtà, oggettivamente composta di bello e di brutto, di facile e di difficile, di liscio e di arduo, costantemente in qualcosa di “problematico”? Chissà, forse è così. Forse sono portato a vedere problemi ovunque. Qualcuno una volta disse di me: Enrico è un ottimo risolutore di problemi. Questo perché li anticipo, li immagino, li considero. Perché sto sempre attento (Nota 2). Non si diventa un ottimo risolutore di problemi (altrui) se non si vive con l’idea che tutto possa potenzialmente essere un problema. Qualcun altro una volta disse: Enrico, sei incapace di godere. Anche questo – ahimé – è vero. Nella mia condizione di “ottimo risolutore di problemi” (altrui), come faccio a godere? Se per me la vita è tutto potenzialmente qualcosa di imperfetto che io devo sistemare, come faccio a rilassarmi? Cosa c’è di perfetto per me nell’esistenza? Cioè, di non-problematico, che non necessita di essere risolto?

Vi rispondo subito. Dio. Dio è qualcosa – per me – che non consiste un problema, qualcosa che non devo risolvere. Posso solo goderne. Quando leggo le scritture sento tutti i nervi del mio corpo sciogliersi. Posso solo ammirare, ascoltare, lasciarmi invadere da tanta saggezza e sapere e naturalezza. Così è con la musica. Quando sono circondato dalla musica, sono circondato da Dio. Non c’è nulla di sbagliato, nelle sette note, che io debba correggere, o aiutare, o modificare.

Solo Dio e la musica mi fanno godere. Ah, anche il sesso, certo. Nel sesso ritrovo sia Dio che la musica.

Enrico Petronio

Note:

1 In realtà il termine che Shakespeare usa nel celeberrimo verso – “To be or not to be, that is the question” – non è “problema” ma “domanda”, “questione”. Il fatto che io in questo articolo abbia voluto usare la parola “problema” dimostra solo quanto manipolatoria sia l’operazione del traduttore, il quale, più onestamente o meno, fa dire allo scrittore originale ciò che in realtà lui vorrebbe dire. Ad ogni modo, nel mio caso, il senso del pensiero è il seguente: ogni “domanda” costituisce un “problema” in quanto ci obbliga a scegliere tra una soluzione A e una soluzione B. Davanti ad ogni “domanda” siamo come davanti a un bivio. Ed è questo costante trovarsi obbligatoriamente davanti a dei bivi che trovo al tempo stesso eccitante e faticosissimo.

2 Nel termine “attenzione” è insito il concetto di “tensione”. Quando siamo attenti, siamo in tensione. Io sono attento venticinque ore al giorno. Sì, un’ora in più rispetto al cosmico passare del Tempo. Caso mai mi fossi distratto un pochino nelle canoniche ventiquattro ore, posso recuperare nella venticinquesima. Quell’ora in più che ho nell’immaginazione.

WILLY del sabato / rubrica

Le prove di “Dateli a me questi fiori” con Elisa Galvagno (2015)

Secondo me, la verità è la cosa più potente che ci sia. Non so se la verità trionferà mai. Ma so che è la cosa che mi auguro, il mio ideale più grande. Credo fermamente che la verità apra tutte le porte. Anzi, che le sfondi.

Certo, proprio in virtù di questa sua forza che ogni ipocrisia distrugge, non sempre è utile dire la verità, non sempre è saggio, non sempre aiuta. I rapporti umani necessitano, ogni tanto, di qualche bugia, se detta a fin di bene. Ma comunque, la verità va detta “dentro”, nel proprio cuore, o coscienza – come meglio preferite – altrimenti senza verità non c’è giustizia.

Sono un uomo fortunato. Ho avuto la fortuna di nascere, non per merito mio, in un luogo, in una società, in un nucleo familiare, che mi hanno dato un letto caldo e pane da mangiare. E molto più di questo. Non ho fatto nulla per essere nato dove sono nato, in questo luogo fortunato. Non è merito mio.  Allo stesso modo ci sono persone che non hanno fatto nulla per nascere in luoghi e contesti meno fortunati del mio. Ci sono esseri umani, ad esempio, che non hanno fatto nulla per nascere in luoghi del mondo dove si muore di fame. Non c’è alcuna ragione perché io non mi alzi domattina dal letto e non prenda un aereo per andare ad aiutare quelle persone. Ogni mattina io scelgo di non prendere quell’aereo e di non andare ad aiutare persone meno fortunate di me. Ogni mattina io mi prendo cura di me e della mia vita, e non di loro. È una mia scelta. Non ho alibi. Questa è la verità.

È perfettamente inutile che io tenti di difendermi dicendo “sì, ma…”. Nel momento in cui io affronto ogni mia giornata, in Italia, a Roma, a casa, e combatto per un palcoscenico, e poi la sera vado a letto e mi guardo un bel film in tv, ci sono esseri umani come me, nati su questo pianeta come me, con corpi fatti di muscoli e sangue, capaci di ridere e piangere e soffrire il solletico – direbbe Shylock ne “Il mercante di Venezia” –  proprio come me, che combattono per un po’ di pane. Molti muoiono. Così è.

Dunque, io continuerò a fare la mia vita. Continuerò a scegliere “me” e non loro. Ma almeno – per carità, vi prego! – diciamo la verità. Forse dicendola guadagneremo una prospettiva più umana sulle nostre vite fortunate, ansiose, isteriche, lamentose, ingiuste. Il mondo è un luogo ingiusto.  Il mio desiderio più grande è che diventi un po’ più vero.

Enrico Petronio

 

 

 

Alter-ego

ALTER-EGO

“Credo di aver fatto un importante passo in avanti nella mia evoluzione artistica, trovandomi un alter-ego. Lo consiglio a tutti: fatevi un alter-ego.

Carmine Fabbricatore è perfetto nel ruolo di “me”. E’ simpatico, alla mano, pieno di entusiasmo. E poi è formale, impacciato, ansioso di risultare perfetto. Dice sempre: “avrei potuto farla cinquanta volte meglio”, e invece andava benissimo al primo colpo! E’ così tenero. Mi assomiglia in utto. Solo che è più giovane e più carino. Posso mandargli le battute da imparare a memoria la sera prima e lui lo fa senza battere ciglio.

Sono tentato di chiedergli di prendere il mio posto anche nella vita reale, solo che a quel punto dovrei presentargli mia madre, e temo per la sua incolumità”.

Enrico Petronio

http://www.facebook.com/loziowilly/videos/2647563682163616/

WILLY

Le prove di “Nudo, ovvero Sogno di una notte di mezza estate” (2014)

“Esplorare la vita attraverso Shakespeare; esplorare Shakespeare attraverso la vita”.

Arrivato a quarantacinque anni, con relativamente poco di realizzato e ancor meno da perdere, per metà libero e per metà prigioniero (ma prigioniero e carceriere son sempre io), mi guardo intorno e vi dico: il mondo non mi piace. Ora posso dirlo. Senza vergogna, senza paura di apparir gelido o, peggio ancora, moralista. Che colpa ne ho io se il mondo non mi piace? E perché mai devo vergognarmi a dichiararlo? Perché devo frenarmi , o farmi degli scrupoli? Oggi, mentre correvo non so più da quale parte, ho avuto il luminoso sospetto che sia la rabbia a tenermi in vita, persino l’odio. L’odio appollaiato dietro ai miei occhi che molti definiscono “profondi” e persino “sorridenti”. Sarà!

Mi piace il mondo creato da Dio, da Madre Natura, non quello forgiato dagli esseri umani, che è fatto di porte, sbarramenti, spigoli, ingranaggi, cerniere lampo, password, pin, pod.  Mi piacciono gli esseri umani, ma solo “nudi”, quando si rispettano gli uni con gli altri.

In questo casino boia che nulla ha da invidiare alla Roma degli shakespeariani drammi romani – “Tito Andronico”, “Giulio Cesare e “Coriolano” – la mia ira è un misto di idealismo, tristezza (per tutte le occasioni mancate) e un dispotico, bruciante e feroce sogno di vendetta. E uso non a caso il termine “sogno”, perché tanto so che il mio Super-Io civilizzato mi impedirà qualsiasi realizzazione di questo mio sogno. Non posso fare altro che chiudere gli occhi alla sera, e immaginare di aprire il fuoco sulla folla. E questo pensiero – lo ammetto: orrendo, disumano  – è il solo capace di rasserenarmi, l’unico che mi fa respirare, che mi fa dormire tranquillo. Adesso giudicatemi.

Vorrei avere potere di vita o di morte sugli esseri umani. Vorrei poter eliminare, cancellare dal volto della Terra, gli stupidi, i presuntuosi, gli ignoranti, i superbi, i prepotenti. Senza processo. Senza alcun appello. Senza chiacchiere. Tu commetti un torto nei confronti di qualcun altro, morale o fisico? E io ti elimino. Niente seconda possibilità. Il solo fatto che tu abbia concepito il torto dentro di te esclude la possibilità misericordiosa che tu possa, domani, ravvederti.  E perciò sei un fallimento, sei un danno, sei un pericolo. Devi essere punito. Non devi esistere.

Sei inutilmente ingombrante. Serve spazio per gli uomini intelligenti, quelli che si fanno domande, che sono gentili, che aiutano il prossimo. Tu, invece, non sei mai stato qui.

Ieri, mentre tornavo a casa in macchina, nel giro di dieci minuti ho incontrato ben quattro motorini contromano. Naturalmente contromano. È una cosa che mi fa infuriare. Trasgredire la legge con tale quotidiana naturalezza. Ho una domanda: perché io – che mi sforzo di osservare le leggi – devo faticare di più perché tu invece non lo fai? Perché devo essere costretto a stare più attento del dovuto, solo perché tu non ti vuoi abbassare ad essere civile? Secondo gli antichi Greci siamo animali sociali. Secondo me, i Greci erano più ottimisti ed ingenui del sottoscritto.  La prossima volta non starò attento. Svolterò alla mia curva e ti metterò sotto, e non sentirò alcun rimorso dentro di me, e mi rifiuterò di prestarti soccorso, e davanti al Giudice griderò “in galera non ci vado; non è colpa mia se quello aveva scelto di andare contromano!”

E guarda queste ultime elezioni! A sentir loro, ciascuno è vincitore! Ma se la logica è logica, qualcuno avrà pur perso! E perché c’è così tanta vergogna a dire “ho perso”? Perché dobbiamo sempre tutti vincere? E cosa vinceremo mai?  “Corriamo tutti verso la morte”, sentenzia il Duca in “Misura per misura” di Shakespeare.

Dio, che mondo! Tutti parlano di diritti, nessuno di doveri. Coriolano. Coriolano, lui capirebbe come mi sento, come mi sento spesso io…

Enrico Petronio

Willy per Gianluca Vialli

WILLY PER GIANLUCA VIALLI

“La tua voce è un tuono, ma il tuo sguardo è umile”
(Clarence da Riccardo III, I, 4)

Il mio rapporto con il calcio – non quello che si trova nel latte e nei formaggi – risale all’infanzia. Non me n’è mai importato assolutamente nulla. Non solo. Durante la ricreazione a scuola, preferendo di gran lunga giocare con le femmine che con i maschi – allora si potevano ancora fare distinzioni senza rischiare di incappare nelle cretine condanne del politically correct – quando poi mi toccava per forza di giocare a calcio, nell’ora di ginnastica, io ero la classica pippa, quello che quando si fanno le squadre viene scelto per ultimo. Anzi, neanche scelto, subìto. Rimane Enrico. Tocca prendersi Enrico. Umiliazioni a parte – nulla che non si possa sconfiggere con anni di terapia e di vomito – io ero quello che, nel campetto della scuola, mi agitavo facendo finta di prendere parte al gioco mentre in realtà facevo di tutto per rendermi invisibile, oppure ero quello che mettevano in porta e trascinavo così la squadra alla sconfitta.

Anni dopo, ormai maturo – maturo io? – quando ero allievo alla Scuola del Piccolo di Milano, i miei amici “maschi” decisero una domenica di organizzare una partita a pallone. Andai anch’io. E di mia spontanea volontà. Umiliazioni superate, volevo stare con i miei amici. Volevo imparare a non farne un dramma se ero una pippa a calcio. Volevo imparare a ridere di me stesso. E così fu. Nessuno si prese gioco di me. I questo gli attori sono di gran lunga superiori alla gente normale. Hanno l’ansia se la luce in scena non li rende bellissimi, ma dei goal gliene frega di meno. Comunque, trascinai la mia squadra alla sconfitta. O forse, a un certo puto del gioco, mi feci da parte. Ebbi io pietà di loro.

Sono l’anti-sport. Odio qualsiasi tipo di competizione. Tranne che con me stesso. Le mie viscere non tollerano l’idea di perdere. E nemmeno quella di vincere. Preferisco vivere in un mondo in cui non c’è nulla da vincere, l’arte, appunto. Ma non dico che sia giusto. Anche chi è allergico alla competizione deve farsi qualche domanda. Come chi è troppo competitivo. Perché sono allergico alla competizione? Perché non sopporto l’idea di perdere? O di vincere?

Quanto a Gianluca Vialli, non so nulla di calcio e quindi la mia opinione non è sportiva. Però so qualche cosa a proposito di esseri umani… e di occhi. E negli occhi di quest’uomo ho sempre visto qualcosa che altri non avevano e non hanno. Uno sprazzo di vita che buca. Un laser che lavora defilato e potentissimo. Una fragilità offerta a tutti che non è mai autocompiacimento o alibi. Altro non so. Ho comprato l’altro giorno il suo libro. Mi sono messo a leggere le storie di tutti questi sportivi, di tutti questi campioni, di tutti questi vincenti. Forse ho cominciato a dare più importanza al termine “vincere”. Forse mi fa meno schifo. Sapete una cosa? Queste pagine, questi racconti, trasudano una passione smisurata per ciò che si fa. Non raccontano di gente che voleva vincere per forza. Ma di gente che ha vinto per l’enorme passione, cocciuta, ostinata, cieca, selettiva, che poi li ha portati un giorno a vincere.

Non voglio adesso dire che da oggi mi metterò in testa di vincere qualcosa. Qualcosa ho vinto, sì, nella vita. Al ritiro per la Cresima, da ragazzo. Alla fine del campeggio ricevetti il premio “il ragazzo dalle pigne in testa”, una base di legno con due pigne incollate sopra. Risero tutti di me. Ancora.

In una sua intervista Gianluca Vialli parla del cancro non come di una “battaglia”, non come “qualcosa da sconfiggere”. “Meglio non farlo incazzare”, dice. Sì, mi piace quest’uomo. Che ha passione, che s’impegna, che rispetta il nemico.

Enrico Petronio

WRETCHED QUEEN / SVENTURATA REGINA

WRETCHED QUEEN

“Wretched Queen adieu!” (Hamlet,V,2)

To every fallen crown, to every useless piece of gold, to all dead objects without soul, to every trick which covers and smothers our true breath, to every kind of  boasted power we proclaim with scorn and narcissism, and to all sorts of false self-confidence and alibis and lies we tell ourselves, to every symbol of our fears, adieu! Let’s look very carefully at our useless titles, for they are all we are not, and that gives us the chance to make up with what we are, once for all.

SVENTURATA REGINA

“Sventurata Regina, addio!” (Amleto,V,2)

A tutte le corone cadute, a tutto l’oro inutile, a tutti gli oggetti morti e senza anima, a tutti i trucchi che mascherano e soffocano il vero respiro, a tutto il potere sbandierato con disprezzo e vanità, a tutte le false sicurezze e gli alibi e le bugie che raccontiamo a noi stessi, a tutte i simboli delle nostre paure, addio! Guardiamo bene la sterile inutilità dei nostri titoli, perché sono tutto ciò che non siamo; e sono l’occasione per riconciliarci con ciò che siamo una volta per tutte.

EP

 

 

 

AMLETO / HAMLET

AMLETO

Il 3 marzo scorso, quando questa cosa surreale del Coronavirus è cominciata, ho deciso di concentrare il mio lavoro sull’ Amleto. Ho sentito istintivamente che a quarantacinque anni non avrei avuto migliore occasione per capire quali intimi flussi si muovano dentro a quest’opera. I tempi che tutta l’umanità stava per vivere, con la loro tragicità, mi stavano dando la perfetta occasione per indagare, esplorare e comprendere Amleto. Il mio lavoro non è sempre divertente. A volte si tratta di rendere divertente, o meglio, interessante, ciò che è doloroso, ciò che non vorremmo affrontare. Si tratta di andare all’inferno, e uscirne fuori come una freccia scoccata dal profondo, ancora sporca del sangue infernale, ma già con tutta la luminosa potenza dell’idea che ci sia un riscatto dalla sofferenza, e che questo riscatto sia in cielo, nelle luminose profondità dell’universo.

HAMLET

On march 3rd, when this whole surreal thing about Coronavirus was just about to begin, I decided to concentrate my work on Hamlet. I instinctively felt that at the age of 45 I would have never had such an occasion again to really understand what intimate flows move underneath this piece of work. The time that all of the humanity was just about to live through, with the whole of its tragedy, was the perfect chance for me to investigate, and explore, and comprehend Hamlet. My job isn’t always funny. Sometimes it’s about turning what is painful, and what we don’t want to face, into fun, or – better said – turn it into something interesting. It’s about travelling straight to hell itself, and then exiting out of hell like an arrow which has been fired out of the depths, still dipped in blood, but bearing the bright potency of a supreme idea which says “yes, there is liberation from sufferings, and freedom is the sky”. Freedom dwells in the sparkling depths of the universe.

Enrico Petronio

IL TEMPO DELLA VERGINE, “IL TEMPO” PER LA VERGINE

Breve storia di Porzia ne Il mercante di Venezia di William Shakespeare. Porzia è una “dama”, è “bella”, “ha molto ereditato”, ed è rinchiusa nel Palazzo di Belmonte (Belmonte è un luogo immaginato da Shakespeare vicino a Venezia) prigioniera di una promessa fatta al padre sul letto di morte: ella sposerà solo colui che riuscirà a sciogliere l’enigma che si cela sotto la “lotteria” dei tre scrigni d’oro, d’argento e piombo. Porzia come la Sfinge, come la Sibilla. I più arroganti e vanesi pretendenti del mondo tentano l’impresa, ma nessuno riesce a scegliere giustamente, e così Porzia rimane in attesa che un giorno il proprio destino si compia. Prigioniera, nello Spazio e nel Tempo, delle stanze del suntuoso Palazzo. Poi, un giorno, finalmente, il prode e saggio Bassanio opera la scelta corretta – ovviamente lo scrigno da scegliere era lo quello di piombo, il più umile, il meno appariscente, e anche il più esigente – e Porzia viene vinta e può felicemente coronare il proprio sogno d’amore. Ma subito Bassanio riceve la notizia che il suo caro amico Antonio – il “Mercante” del titolo – si trova in grave difficoltà economiche e rischia persino di perdere la vita. Porzia lascia che il marito corra in soccorso dell’amico. Ma non solo. Indossati i panni e la maschera di un fantomatico Dottore in Legge, ella stessa si presenta a Venezia davanti al Doge, proprio un attimo prima che Antonio venga “giustiziato”, e lo salva, riuscendo lei e solo lei a trovare la falla nel contratto che a tutti appariva inattaccabile. Per sapere poi come va a finire fra lei e Bassanio, be’, dovete o leggere l’opera o andarla a vedere a teatro.

Scrivono gli astrologi a proposito di cosa significhi il Tempo per la Vergine, il segno che più coglie la caducità di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi:

“La vera partita si gioca con il Tempo (…) Il Tempo, così inesorabile e condizionante, è il vero problema della conoscenza. È il Tempo che va conosciuto, misurato, curato, seguito, capito, smascherato nel suo inaccessibile segreto. Noi siamo il nostro tempo (…) Così, per difendersi e difendere le particolarità della vita amata con tutta se stessa, la Vergine cataloga, dispone con cura e attenzione meticolosa. Colleziona i mille frantumi della vita che va in frantumi (…) Il lavorio mentale della Vergine non ha fine (…) Forse il gioco ininterrotto della mente verginea è solo e davvero un gioco per far passare il tempo. (M.Pesatori, Astrologia per intellettuali)

“Mercurio è domiciliato in Vergine, è a casa propria, perché il pianeta del pensiero ben si sposa con il segno della logica e del ragionamento (…) Porta con se un insegnamento che si potrebbe intitolare ‘pensiero ordinato’ (…) Mettere in ordine le idee, dare giudizi più ponderati, analizzare più in profondità varie situazioni, prestare maggiore attenzione ai dettagli (…) senza improvvisazioni arrischiate (…) un ‘Grillo Parlante’ (…) atteggiamento rigoroso e prudente”. (Simon & the stars, Mercurio in Vergine, dal sito)

E così Porzia, in attesa di essere vinta, prigioniera nel Palazzo di Belmonte, spende il Tempo, lo riempie, lo occupa, lo solca, in pensante solitudine, in una macchinosa danza dei neuroni… e intanto cataloga i pretendenti uno dopo l’altro, con ironico ordine e mesta metodicità.

“Ti prego nominali ad uno ad uno, e dopo che avrai nominato ciascuno di loro, io lo descriverò… “ (I,2)

E – finalmente! – quando poi trova colui dal quale vorrebbe ardentemente farsi vincere – Bassanio! – ancora una volta Porzia parla del Tempo come di qualcosa che vorrebbe non finisse mai. Interessante come Porzia istintivamente desideri trattenere Bassanio, spaventata dall’idea che egli possa scegliere male e che quindi il piacere della sua compagnia possa anch’esso finire, morire…

“Parlo troppo, ma è per fare a pezzettini il Tempo,
per accrescerlo, per estenderlo in lunghezza,
per trattenervi dalla vostra scelta”.
(III,2)

Quando poi, più in là nel play, ella si riferisce all’amicizia fra il suo futuro marito, Bassanio, e il mercante Antonio, come definirà il sentimento di amicizia la nostra dama di Belmonte? Come un qualcosa che fa “spendere il Tempo assieme”…

“Fra amici
che conversano e spendono il Tempo assieme,
le cui anime sopportano eguale giogo d’amore,
ci dev’essere per forza la stessa proporzione
di lineamenti, di modi, e di spirito”.
(III,4)

“Di certo comunque ci vorrà un po’ di tempo e via via che il rapporto si andrà cementando non mancheranno critiche, rimbrotti, mugugni, frecciatine e un sottile, meraviglioso sorriso sotto i baffi… o sotto il rossetto!” (G.Sorgi, Io Vergine, tu Pesci)

La Sibilla ha dovuto aspettare prima di essere conquistata. Oppure, la Sibilla ha voluto aspettare prima di essere conquistata. Consciamente o inconsciamente, Porzia – che Shakespeare ha costruito secondo la personalità del segno della Vergine – ha speso il Tempo chiusa nel Palazzo di Belmonte dove i suoi pensieri hanno riempito la Spazio e fatto trascorrere il Tempo. Il Tempo ha generato i ragionamenti di Porzia, e i ragionamenti di Porzia hanno spinto avanti il Tempo. In una gara sofferta e desiderata allo stesso “tempo”. Ups! E anche da donna ormai “vinta”, il gioco non è finito. Ne comincia subito un altro! E più profondo ancora. Alla fine della commedia (ma quale “commedia?”), Porzia troverà ancora una ragione (e piuttosto importante) per dilatare maggiormente il Tempo: ancora un dettaglio da correggere, ancora un “rimbrotto” (come scrive Sorgi) da scagliare, una dolce “frecciatina”, proprio all’amato Bassanio, e non senza motivo. Nulla di tremendamente grave, ma importante sì. Quel qualcosa che faccia in modo che la vita non appaia mai perfetta del tutto, ma sempre perfettibile, sempre lavorabile, migliorabile, modellabile. Verso un’idea di ideale eternità.

E. Petronio

Rita Stocchi

“Fa’ attenzione alla musica”
(Il mercante di Venezia, V, 1)

Domenica prossima all’Auditorium Parco della Musica di Roma, in occasione del quarto appuntamento del progetto TO BE…SHAKESPEARE, appuntamento dedicato questa volta interamente al “misteriosissimo” personaggio di Mercuzio nel “Romeo & Giulietta”, avrò l’onore (e l’onere) di presentare il mio lavoro in collaborazione con Rita Stocchi.

Amica da tantissimi anni, con lei sono partito, tempo fa, per una missione speciale: indagare il rapporto fra Shakespeare e la musica.

Sono il risultato di un esperimento segreto condotto da un’università americana: a soli tre anni mi fu impiantato nel cervello (e nell’anima) uno speciale micro-jukebox che mi permette di (e mi condanna a…) ricordare tutte le canzonette che ascolto, alla radio, in tv o sui cd. Ma non solo. Sono in grado di selezionare testi e atmosfere così da poter poi associare i brani a qualsiasi situazione “drammatica”, anche, ad esempio, alle vite dei personaggi di Shakespeare.

Rita Stocchi, cantante lirica e amica, è anche lei, a sua volta, il risultato di un esperimento segreto condotto da un’università americana: a soli tre anni le fu impiantato nel cervello (e nell’anima) il potere non solo di cantare meravigliosamente ma di scavalcare (forse addirittura ignorarli) tutti gli umani pregiudizi, anche i più seri, quelli ormai socialmente accettati e radicati, fastidiosissime barriere che noi per primi ergiamo fra il nostro cuore (sempre più rigido) e il cuore del mondo (sempre più spaventato). Rita Stocchi ha il dolcissimo potere di vivere la calma e la tranquillità anche nelle cose più spaventose. Per lei ogni cosa è naturale, pure l’errore. E, così, trasforma tutto in serenità… nel disegno di Qualcuno o di Qualcosa di più grande.

Dunque domenica avrò l’onore di collaborare con Rita Stocchi davanti alla platea dell’Auditorium. Questa volta lei al piano, ed io alla voce.

Enrico